DIDATTICA: 

L’INSEGNAMENTO DELLE TECNICHE




Le tecniche di gioco sono definite abilità motorie che permettono di compiere movimenti di base, che costituiscono i fondamentali individuali e di squadra dei giochi sportivi . Queste abilità insegnate con un’adeguata catena didattica, ed apprese nel modo corretto, permettono di sviluppare la coordinazione, la forza, la resistenza e il controllo del corpo, migliorando l’agilità e il rendimento nelle attività di gioco complesse. Affinché ci sia un armonico ed efficace apprendimento vanno rispettate sia le tappe di sviluppo fisico sia la meccanica corretta che caratterizzano i gesti tecnici.

Stefano Lorusso.






Bortoli, L., e Robazza, C. (2016). In C. Mantovani (a cura di), Insegnare per allenare: Metodologia dell'insegnamento sportivo (.

  Edizioni SDS.


  • La programmazione

  • La formulazione di obiettivi (goal setting)

  • I contenuti

  • La variabilità: pratica costante o pratica variabile?

  • L’organizzazione dei contenuti: l’interferenza contestuale

  • Pratica globale e pratica per parti Le istruzioni

  • Il feedback e la correzione dell’errore .

Fra le più importanti competenze che deve acquisire l’allenatore vi è quella di saper pianificare e programmare i propri interventi. Questo riguarda sia lo sviluppo ed il mantenimento delle capacità fisico-motorie (preparazione fisica), sia l’insegnamento delle abilità specifiche (preparazione tecnica, finalizzata in genere all’applicazione nelle situazioni di gara); la necessità di integrare queste due componenti dell’allenamento rende sicuramente complesso tale compito. Per quanto riguarda la didattica, l’insegnamento ed il successivo perfezionamento dei gesti tecnici necessitano buone competenze non solo sugli aspetti teorici ed applicativi delle tecniche specifiche, ma anche sui principi che regolano e favoriscono l’apprendimento motorio. Tali conoscenze sono indispensabili per programmare, organizzare e condurre in modo efficace le esercitazioni tecniche. Nella programmazione del lavoro vanno individuati gli obiettivi (in funzione di età, livello e caratteristiche individuali), scelti i contenuti e organizzate le attività. A tale proposito è necessario considerare i fattori che incidono su apprendimento e perfezionamento delle abilità tecniche. La ricerca ha messo chiaramente in evidenza l’importanza della variabilità della pratica, così come delle modalità con cui le esercitazioni variate vengono organizzate; è stato evidenziato in particolare il ruolo dell’interferenza contestuale. Durante la pratica, poi, l’allenatore fornisce istruzioni ed utilizza il feedback per rinforzare l’esecuzione buona o correggere eventuali errori. Anche riguardo ad istruzioni e feedback esistono principi didattici consolidati che sostengono un insegnamento più efficace. 

La programmazione

 Il concetto di programmazione didattica, che deriva dal contesto scolastico, riguarda fondamentalmente le modalità e l’organizzazione dell’insegnamento delle tecniche sportive, ossia le procedure necessarie per far apprendere, e successivamente perfezionare, le abilità specifiche di una disciplina sportiva. Tipicamente nella programmazione sono considerati alcuni elementi: verifica iniziale, formulazione di obiettivi, scelta di contenuti, organizzazione delle attività, verifica finale. Nella programmazione in ambito scolastico è presente il termine “valutazione”, poiché gli allievi ricevono effettivamente dei voti o dei giudizi sulle loro prestazioni in base a verifiche effettuate dagli insegnanti. Nello sport, in realtà, risulta maggiormente adeguato il termine verifica; infatti, in un percorso di sviluppo motorio-sportivo è importante considerare soprattutto gli incrementi progressivi nelle capacità motorie, l’acquisizione ed il perfezionamento delle tecniche sportive, ed anche la capacità di utilizzare le proprie risorse psicofisiche nei contesti della competizione. La programmazione in ambito motorio-sportivo possiede caratteristiche peculiari, confermate dalla ricerca scientifica, da cui derivano aspetti applicativi significativi e specifici. Ovviamente, per poter programmare ed organizzare le attività, è indispensabile conoscere le caratteristiche personali degli atleti con cui si lavora: capacità, abilità, livello di apprendimento, ma anche motivazione, fiducia e, più in generale, atteggiamento verso la pratica sportiva. La realtà dello sport, a tale proposito, è estremamente variegata e complessa. Le discipline sportive sono molte e richiedono spazi, attrezzature, abbigliamenti assai diversi; un allenatore può lavorare con singoli atleti, con piccoli gruppi o con squadre numerose. A volte  i gruppi sono omogenei per età e/o per livello tecnico, mentre altre volte sono molto eterogenei. Ci sono allenatori che amano lavorare solo con atleti giovani, per poi affidarli ad altri, ed allenatori che invece preferiscono “costruire” gli atleti accompagnandoli negli anni. Talvolta la finalità è quella di insegnare tecniche sportive senza necessariamente pensare ad un futuro agonistico, ma semplicemente come pratica motoria per la salute ed il divertimento: è il caso, ad esempio, del nuoto, delle arti marziali, del ciclismo, del pattinaggio. In situazioni così diversificate, anche la verifica iniziale acquista un altro significato. Gli atleti che già praticano da tempo sono di solito inseriti in contesti dove momenti di verifica (in genere dei livelli di preparazione fisica) sono presenti, e dove la verifica dell’apprendimento tecnico si concretizza nelle prestazioni di gara. In questo caso, il programma di lavoro viene costruito logicamente sulla base delle esperienze precedenti. Quando invece si inizia con un gruppo di giovani principianti, ci si trova quasi certamente di fronte a livelli di capacità motorie e di caratteristiche coordinative assai variegati e quindi molto diversi tra loro. Attraverso le proprie conoscenze delle tecniche e delle didattiche specifiche, che consentono di stabilire degli obiettivi tecnici di base, un allenatore può iniziare un programma di lavoro con la consapevolezza di doverlo comunque aggiustare ed adattare durante le attività stesse. I diversi aspetti della programmazione vengono di seguito presentati.

La formulazione di obiettivi (goal setting)

La formulazione degli obiettivi rappresenta un momento fondamentale di ogni programmazione, poiché definisce gli standard di livello condizionale, di abilità tecnico-tattiche e, a volte, anche di abilità mentali che ci si prefigge di raggiungere a breve, a medio e a lungo termine. Nello stesso tempo, una corretta formulazione di obiettivi rappresenta un’importante strategia motivazionale, in grado di influenzare positivamente la prestazione di atleti di varie età e di diverso livello; conosciuta anche come goal setting, viene considerata tra le abilità mentali di base o le tecniche che l’atleta stesso dovrebbe acquisire. Infatti, avere obiettivi precisi e chiari aiuta a dirigere l’attenzione sugli aspetti importanti del compito, ad attivare e modulare un impegno adeguato e persistente nel tempo, a sviluppare nuove strategie di apprendimento: consente, in sintesi, di stabilire precisi riferimenti di confronto e di impegnarsi in maniera specifica per acquisire le competenze necessarie, ricavandone sensazioni di successo. Gli obiettivi possono essere espressi in termini quantitativi (le misure di salti o lanci, la percentuale di realizzazioni a canestro o di ricezioni corrette, il tempo in una certa distanza di corsa o di nuoto, il punteggio complessivo nel tiro a segno, ecc.); oppure possono essere qualitativi, facendo riferimento a parametri di precisione e correttezza esecutiva (ad es., criteri di fluidità, ritmo, costanza ed ampiezza di azioni tecniche). Attualmente si tendono a distinguere, in modo più sistematico, tre tipologie di obiettivi (Weinberg, Butt, 2014):

obiettivi di risultato. Sono la forma più semplice (ed anche grossolana) di obiettivi, che pone in genere l’accento sul risultato della competizione sportiva: “vincere”, “piazzarsi fra le prime sei posizioni”, “realizzare almeno tre mete”. In realtà, espressioni di questo tipo non rappresentano dei veri obiettivi, in quanto fanno riferimento a situazioni che dipendono anche da fattori esterni (innanzitutto dalle abilità degli avversari!) e non possono essere, pertanto, sotto il controllo esclusivo dell’atleta. Quando durante la gara gli atleti si pongono prevalentemente questo tipo di obiettivo, può aumentare il loro livello di ansia e preoccupazione, poiché la loro attenzione è più sul risultato finale che sull’esecuzione. Soprattutto con gli atleti più giovani, enfatizzare obiettivi di risultato tende facilmente a suscitare aspettative non realistiche che, se disattese, riducono il senso di efficacia personale con incremento di stati emozionali negativi, calo di impegno e spesso, di conseguenza, decremento della prestazione. Inoltre, nessun allenatore può garantire ad un proprio atleta o alla propria squadra la certezza della vittoria o di un piazzamento che dipende anche dagli avversari;

obiettivi di prestazione. Sono indirizzati alla specificità della prestazione sportiva: ad esempio, fare il record personale nei 1500 metri, almeno 590 punti in una gara di tiro a segno, o l’80% di battute corrette in una partita di pallavolo. Questi obiettivi sono indipendenti dal risultato della competizione, centrati più sul confronto con la propria prestazione precedente che con gli avversari; sono dunque più controllabili poiché, per essere raggiunti, non vi è bisogno di fare riferimento alla prestazione altrui. Pur essendo di tipo quantitativo, rappresentano però un riferimento prestativo che non si traduce chiaramente e automaticamente in comportamenti esecutivi corretti in allenamento e in gara (non basta porseli come obiettivi per ottenerli!);
obiettivi di processo. Sono finalizzati a mettere fuoco un particolare elemento dell’azione che si deve eseguire, e consentono all’atleta di rendersi conto e controllare aspetti specifici durante l’esecuzione di un gesto tecnico. Ne sono esempi il controllo del polso in un lancio della clavetta nella ginnastica ritmica, la spinta completa del piede nello stacco del salto in lungo, un’azione corretta delle mani in un muro della pallavolo. Questi obiettivi sono direttamente sotto il controllo dell’atleta e facilitano la sua consapevolezza dei gesti che sta eseguendo. Sono usati soprattutto in allenamento, poiché è lì che l’atleta si esercita per perfezionare la tecnica, ma possono essere utili anche in gara: infatti, sotto la pressione della competizione, avere in mente un obiettivo di processo può aiutare a focalizzare l’attenzione su un aspetto esecutivo piuttosto che sul risultato. Ovviamente, porsi tutte e tre le tipologie di obiettivo può essere produttivo e vantaggioso: allenatore ed atleta devono saper riconoscere la priorità di un tipo di obiettivo rispetto ad un altro, in funzione del livello di preparazione, del momento della stagione agonistica, delle diverse tappe della programmazione. Va comunque sottolineato come per raggiungere un obiettivo di risultato si debba passare attraverso diversi obiettivi di prestazione e di processo, che rappresentano le tappe necessarie per arrivare al risultato (figura 1). La formulazione di obiettivi può essere riferita ad un singolo atleta, ma anche ad una squadra o a gruppi di giocatori; può riguardare sia aspetti tecnici che tattici. 








Nel contesto didattico dell’insegnamento della tecnica, gli obiettivi maggiormente utilizzati sono quelli di prestazione e di processo. Per quanto riguarda le tecniche sportive, ormai per tutte le discipline sono state elaborate delle progressioni didattiche che partono dai fondamentali tecnici per poi evolvere verso il miglioramento, il perfezionamento e l’applicazione nel contesto agonistico. Gli obiettivi della costruzione tecnica di un atleta sono dunque, in genere, abbastanza chiari. Di seguito vengono presentate alcune indicazioni per la formulazione di obiettivi, importanti soprattutto a fini didattici; altre indicazioni sono suggerite nel capitolo sulla motivazione, poiché, come si è detto, la formulazione degli obiettivi rappresenta anche un’importante strategia motivazionale.


  • Indipendentemente se espressi in termini quantitativi o qualitativi, gli obiettivi debbono essere pienamente comprensibili e valutabili: vanno formulati in modo chiaro, descrivendo i comportamenti osservabili richiesti, definendo i criteri della prestazione accettabile e, infine, i tempi del conseguimento. 

  • Gli obietti vanno formulati in termini positivi: ad esempio, “incrementare la percentuale di azioni corrette”, piuttosto che “ridurre il numero di errori”; similmente, per quanto riguarda il gesto tecnico l’indicazione dovrebbe riguardare l’esecuzione corretta (“tenere il braccio teso”), piuttosto che evitare l’errore (“non piegare il gomito”). La formulazione in positivo aiuta gli atleti a pensare in termini di successo invece che di fallimento e crea corrette aspettative; dal punto di vista tecnico, aiuta a costruire l’immagine mentale corretta da utilizzare come guida per l’azione.

  • Considerate le caratteristiche a volte molto diverse tra loro degli atleti, gli obiettivi vanno individualizzati. È importante tener conto delle capacità individuali, delle esperienze passate, dei ritmi di apprendimento di ciascuno, per cercare di garantire effettivamente ad ognuno esperienze di successo. Può essere utile la registrazione in forma scritta degli obiettivi fissati e conseguiti, che aiuta a ricordare quanto stabilito e a rinnovare l’impegno. 

  • Soprattutto con i principianti, vanno identificati pochi obiettivi prioritari sui quali far convergere l’attenzione e l’impegno; solo dopo il conseguimento di questi si dovrebbe progredire verso una tappa ulteriore. Gli atleti esperti, invece, possono gestire un numero maggiore di obiettivi in maniera efficace. 
  • L’allenatore deve fornire informazioni costanti e precise sulla prestazione: all’atleta va data l’opportunità di confrontare quanto sta realizzando con gli standard desiderati, al fine di ricavare le indicazioni necessarie per apprendere, correggere gli eventuali errori e progredire

  • Gli obiettivi vanno scanditi nel tempo, considerando obiettivi a breve, a medio e a lungo termine. Obiettivi a lungo termine (molti mesi o anni) possono essere raggiunti solo attraverso obiettivi a medio termine (un mese o più) e a breve termine (una o più settimane). Anche questo aspetto è in funzione delle caratteristiche degli atleti, in particolare di due fattori:

 a) del livello individuale di coordinazione, intesa in termini generali, ossia come capacita di controllo e regolazione motoria, che consente l’esecuzione in modo più o meno preciso delle azioni richieste e la loro eventuale correzione; 
b) della capacità di apprendimento, anch’essa intesa in modo generale, condizionata anche da fattori cognitivi quali attenzione e memorizzazione. I tempi di apprendimento possono dunque essere diversi nei diversi atleti, e questo non solo nelle fasce giovanili.

 I contenuti

Nella programmazione didattica, un aspetto molto importante da considerare riguarda la scelta dei contenuti. Per quanto riguarda le tecniche sportive, per tutte le discipline esistono ormai delle progressioni didattiche proposte dalle Federazioni che vengono presentate di solito nei corsi di formazione. In genere, fanno riferimento a dei modelli tecnici ottimali ed ideali, fondati a volte su precisi riferimenti scientifici (biomeccanici, temporali, ecc.), in altri casi su tradizione, modelli di campioni, ma anche talvolta su convinzioni personali di allenatori; in alcune discipline esistono delle “scuole di pensiero”, con tagli differenti, che fanno riferimento a modelli tecnici utilizzati in nazioni diverse. L’insegnamento della tecnica ha però caratteristiche peculiari nelle diverse fasce di età: in età giovanile, infatti, l’apprendimento tecnico va ancora integrato con una gamma più ampia di abilità motorie, anche non specifiche, al fine di sviluppare capacità generali di coordinazione e controllo motorio che risulteranno utili per un successivo perfezionamento tecnico. A tale proposito, esistono attualmente in letteratura diversi modelli che descrivono le linee guida per un’evoluzione positiva nel tempo di un atleta, dai primi passi fino all’alto livello. Quello più consolidato è il un modello finalizzato a favorire la partecipazione sportiva a lungo termine, anche con finalità di elevata prestazione; tale modello, il developmental model of sport participation (DMSP), è stato proposto da Côté, Baker e Abernethy (2007) ed è stato elaborato sulla base di numerose ricerche che hanno esaminato, da diversi punti di vista, la carriera sportiva di giovani talenti e, più in generale, di atleti adulti di élite praticanti diverse discipline. A grandi linee, il modello prevede due possibilità per conseguire prestazioni di alto livello. La prima considera l’avviamento precoce ad un’unica disciplina a partire già dai 6-7 anni, quasi esclusivamente con alta quantità di lavoro tecnico specifico, ed il rischio, nel tempo, di ottenere sì alte prestazioni, ma con problematiche legate alla salute ed alla motivazione. La seconda possibilità, quella auspicata, prevede tre fasi di sviluppo sportivo con contenuti differenziati, in grado di portare un atleta, qualora ne esistano le potenzialità genetiche, ad una prestazione di alto livello, in buona salute e ancora fortemente motivato. Il modello considera tre diversi momenti di sviluppo:
  1. il primo (sampling) si riferisce al periodo che va dai 6 ai 12 anni. È caratterizzato da una bassa quantità di lavoro tecnico specifico e dall’acquisizione di un’ampia gamma di abilità motorie, compresi i gesti tecnici di altre discipline sportive. Il termine che viene utilizzato per definire questo periodo (sampling) può corrispondere al termine multilateralità, già utilizzato nel mondo dello sport giovanile italiano (infatti, il termine inglese ha proprio il significato di varietà, diversificazione, molteplicità di esperienze). In questa fase vanno consolidati ed ampliati quelli che vengono definiti schemi motori di base o abilità fondamentali (correre, saltare, superare ostacoli, arrampicare, lanciare, ecc.) e sviluppate capacità coordinative (combinazione e accoppiamento di movimenti, ritmizzazione, equilibrio statico e dinamico, differenziazione cinestesica, orientamento spazio temporale, trasformazione e adattamento, reazione motoria semplice e complessa);

b)  il secondo momento (specialization), dai 13 ai 15 anni, considera l’inizio della specializzazione sportiva, con esercitazioni tecniche specifiche ed altre attività (compresa la pratica di altre discipline sportive) bilanciate in termini di quantità. Attività variate e multilaterali mantengono ancora un significato importante, non solo per continuare ad offrire ai giovani atleti opportunità di divertimento (aspetto considerato fondamentale anche a fini motivazionali), ma soprattutto come sviluppo ed espressione equilibrata di tutte le risorse motorie personali;
c)  il terzo periodo (investment) parte all’incirca dai 16 anni e comprende l’investimento delle risorse personali nella carriera sportiva, con alta quantità di pratica tecnica specifica. Da qui in poi, la tecnica assume un ruolo fondamentale nell’allenamento, sia ai fini del perfezionamento che dell’applicazione in gara. In età giovanile, dunque, un’ampia varietà di esperienze, soprattutto percettivo-motorie, ha notevole rilevanza per l’apprendimento motorio e la prestazione successiva; costituisce la base per acquisizioni e progressi nella disciplina specifica, ma anche per trasferire conoscenze e competenze ad altri ambiti motori, così come al contesto della vita quotidiana. Qualora vi siano le potenzialità genetiche, accompagnate da altri fattori favorevoli (come, ad es., la possibilità per i giovani atleti di lavorare con tecnici preparati), questo percorso motorio è in grado di condurre a prestazioni di alto livello mantenendo elevata motivazione e con basso rischio di patologie da sovraccarico di allenamento. 

La variabilità: pratica costante o pratica variabile?

A partire dal momento del vero investimento in una carriera sportiva, collocato come si è visto all’incirca attorno ai 16 anni, la tecnica assume un ruolo fondamentale nell’allenamento, che diventa sempre più finalizzato all’applicazione dei gesti specifici in gara ed al risultato agonistico. È da tutti riconosciuto come il raggiungimento di un accurato ed elevato livello di abilità tecniche (in letteratura denominato expertise) necessiti di una grande quantità di lavoro finalizzato. Anche il mondo dello sport è stato fortemente influenzato dagli studi di Ericsson negli anni ’90, che avevano evidenziato in diversi contesti (musica, scacchi, matematica, danza, sport) come per il raggiungimento di una prestazione esperta fossero necessari almeno 10 anni (o 10.000 ore) di lavoro specifico, definito come “pratica deliberata”; ovviamente non tutte le abilità richiedono lo stesso tempo, poiché quelle più semplici ne richiedono sicuramente una quantità inferiore; in ogni caso, attività diverse richiedono tempi diversi. Tale approccio è stato a volte interpretato in maniera superficiale, identificando la pratica deliberata con la ripetizione sempre uguale del gesto tecnico (pratica costante), e sostenendo anche la necessità di una specializzazione precoce in seguito smentita dalla ricerca (Baker, Cobley, 2008). Un gesto tecnico può essere infatti eseguito con diverse modalità, lungo un continuum che va dalla pratica costante, quando l’esecuzione ripetuta avviene sempre nello stesso identico modo e nelle stesse condizioni, alla pratica variabile, quando vengono effettuate variazioni nell’esecuzione o nelle condizioni nelle quali avviene l’esecuzione (figura 2). 





In accordo con la concettualizzazione iniziale di pratica deliberata, il raggiungimento di un livello di expertise richiede impegno cognitivo e fisico, non divertente di per sé, attraverso esercitazioni specifiche fondate sulla ripetizione del gesto. All’interno di tale concezione ciò che si è modificato nel tempo, anche in seguito all’evoluzione scientifica, è il significato di “ripetizione”. La ricerca su acquisizione e perfezionamento di abilità motorie ha infatti evidenziato come l’aspetto determinante non sia il numero assoluto di ripetizioni di un gesto tecnico (ad es., di un servizio del tennis o di un tiro con l’arco), ma il modo in cui l’atleta esegue ogni ripetizione. Secondo Patterson e Lee (2008), “ripetere senza ripetere” è il modo più efficace di apprendere o perfezionare la tecnica, piuttosto che eseguire semplicemente lo stesso gesto più e più volte per riproporre un modello tecnico ideale. La pratica deliberata viene vista oggi, anche dallo stesso Ericsson, come una sfida continua per l’atleta nell’intento di sviluppare un insieme di conoscenze dettagliate sul gesto specifico, una rappresentazione mentale complessa che guidi l’azione verso il conseguimento della prestazione esperta. Piuttosto che mirare solamente all’acquisizione di un gesto completamente automatizzato, per l’atleta risultano utili esercitazioni impegnative dal punto di vista cognitivo, che richiedano riflessione e autovalutazione; l’atleta va incoraggiato a migliorare costantemente le capacità personali di pianificare, modificare, controllare e valutare la propria esecuzione (Wright, Sekiya, Rhee, 2014). Questo approccio sottolinea l’importanza dei processi cognitivi, rispetto a quelli comportamentali, e di una pratica variabile anche nel perfezionamento tecnico. Come si è visto nel capitolo precedente, le due teorie principali del controllo e dell’apprendimento motorio, oggi consolidate, valorizzano entrambe il ruolo della variabilità. La teoria dello schema postula che le variazioni dei parametri applicati ad un programma motorio generalizzato rinforzino lo schema d’azione sottostante; la teoria dei sistemi dinamici ritiene che, nell’interazione compito, organismo e ambiente, le situazioni possano essere simili, ma mai del tutto identiche: le capacità di adattamento attraverso variazioni diventano quindi indispensabili. Da entrambe le teorie derivano indicazioni operative che, pur partendo da presupposti teorici differenti, sottolineano l’importanza della variabilità. Se il concetto di variabilità è ampiamente condiviso nell’ambito degli sport di situazione, non sempre esso trova spazio adeguato negli sport caratterizzati da abilità chiuse (eseguite cioè in un ambiente relativamente stabile), come, ad esempio, il tiro con l’arco, il tiro a segno, i tuffi, la ginnastica artistica, il getto del peso. Negli ultimi anni, anche per le abilità chiuse è stata messa in discussione l’efficacia di una pratica costante (ossia la ripetizione del gesto ottimale più e più volte nel tentativo di automatizzare un modello ideale) come modalità di organizzazione delle attività di apprendimento e perfezionamento tecnico. Si è visto, infatti, che la ripetizione di un singolo gesto non deve considerare solo l’aspetto motorio, ma anche i processi cognitivi sottostanti l’esecuzione; modificando i parametri esecutivi di uno stesso programma motorio (forza assoluta, direzione, traiettoria, tempi esecutivi, arto coinvolto, ecc.), si consegue uno schema di movimento più preciso ed adattabile anche ad eventi nuovi e mutevoli. Grazie alla variabilità, i programmi motori possono quindi essere generalizzati a situazioni che, pur simili, non sono state mai sperimentate in precedenza esattamente allo stesso modo; le condizioni del contesto di gara, infatti, sono un fattore estremamente incostante e mutevole, sia per quanto riguarda l’ambiente (luce, temperatura, rumori, umidità, distrazioni, ecc.), sia per le condizioni psicofisiche dell’atleta (tensioni muscolari, sudorazione, grado di affaticamento, atteggiamenti, pensieri, emozioni, concentrazione, ecc. Lavori ormai classici hanno dimostrato la superiorità, anche in abilità chiuse, di una pratica variabile, con variazioni associate al compito, rispetto ad una pratica solo costante. Ad esempio, Shea e Kohl, già negli anni ’90, avevano evidenziato una prestazione migliore in compiti di modulazione precisa di forza quando venivano sperimentate variazioni collegate al compito (ossia all’interno di una gamma relativamente ristretta di diversificazione). Gli effetti positivi di una pratica variabile, rispetto alla pratica costante, vengono attribuiti ad una graduale maggiore comprensione e definizione in memoria dell’abilità che si sta perfezionando, derivante dal confronto tra informazioni specifiche sul compito con altre ad esse collegate provenienti dalle variazioni del gesto; ciò può contribuire a dettagliare meglio l’abilità che si sta perfezionando, favorendone l’esecuzione appropriata quando necessario. Un’altra spiegazione probabile è che la variabilità favorisca l’identificazione delle molteplici relazioni fra risposte motorie simili, offrendo così l’opportunità di scegliere, in una determinata situazione, la risposta più appropriata fra una gamma di opzioni possibili (cfr. Wright, Sekiya, Rhee, 2014). Negli sport con abilità chiuse, preparazione e competenza dell’allenatore si esprimono anche nella sua capacità di riconoscere, individuare ed utilizzare possibili elementi di variabilità. Farrow (2013) ritiene che la teoria di Ericsson abbia in realtà fornito linee guida solo sul volume di esercitazioni necessarie per raggiungere l’expertise, ma che non sia stata effettivamente utile per aiutare gli allenatori a programmare concretamente le sedute di lavoro tecnico. Una stessa quantità di pratica può produrre scarso apprendimento o, al contrario, miglioramenti sostanziali nel livello di abilità a seconda dei contenuti proposti e della loro modalità di organizzazione. Va comunque sottolineato come pratica costante (abilità ripetuta sempre nello stesso modo e nelle stesse condizioni) e pratica variabile (abilità ripetuta con variazioni dell’esecuzione o delle condizioni in cui viene effettuata) rappresentino in realtà un continuum che deve tener conto della fase di apprendimento in cui si trova l’atleta, del livello individuale di abilità e della complessità del compito. Ad esempio, la pratica costante può essere utile in una prima fase di apprendimento, quando si stanno costruendo gli elementi fondamentali di un gesto e le variazioni potrebbero determinare confusione; così anche quando un’azione risulta molto complessa rispetto alle capacità individuali. Una certa quantità di pratica costante può ancora risultare utile in fase avanzata di perfezionamento, quando è necessario, per un periodo limitato, rifinire un particolare del gesto.

L’organizzazione dei contenuti: l’interferenza contestuale

contestuale Una volta riconosciuto il valore della variabilità ai fini dell’apprendimento e del perfezionamento tecnico, va considerato un ulteriore aspetto determinante per l’efficacia degli interventi didattici: la modalità di organizzazione delle esercitazioni all’interno di una e più sedute. L’organizzazione riguarda la pratica sia di più abilità tecniche all’interno della stessa disciplina (alternanza di programmi motori), sia di variazioni di uno stesso gesto (variabilità di parametri di uno stesso programma). A questo proposito, le discipline sportive sono diverse fra loro: alcune sono caratterizzate da più abilità tecniche che vanno tutte costantemente perfezionate (ad es., battuta, palleggio e bagher nella pallavolo; ruota, verticale e salti nella ginnastica artistica; tecniche diverse di attacco e difesa nelle arti marziali); l’alternanza di programmi motori è quindi un elemento già presente anche a livello di perfezionamento tecnico, poiché è abbastanza raro che un atleta lavori in una seduta tecnica su un’unica abilità. Altri sport, invece, sono caratterizzati da gesti mono specialistici (come il tiro con l’arco o il tiro a segno), oppure sono costituiti da specialità molto diverse fra loro che determinano una scelta ed una specializzazione tecnica rispetto ad una tipologia di gara (ad es., un salto o un lancio nell’atletica leggera, uno stile di nuoto, un ruolo specifico in uno sport di squadra); in questo caso, l’organizzazione riguarda prevalentemente la variabilità dei parametri del gesto. L’alternanza di programmi motori diversi è conosciuta generalmente come interferenza contestuale (cfr. Schmidt, Lee, 2011) e viene rappresentata attraverso un continuum che va dalla pratica per blocchi (pratica bloccata) alla pratica seriale o random (figura 3). 





Nella pratica per blocchi, l’allievo in una seduta si esercita solo su un compito, oppure su più compiti uno dopo l’altro senza però ripeterli dopo averli conclusi. Nella pratica random o seriale, invece, l’allievo si esercita su più compiti uno dopo l’altro e li ripete in modo casuale o in serie. La variabilità di parametri di uno stesso programma è invece rappresentata, come si è visto precedentemente, lungo un continuum che va dalla pratica costante (ripetizione del gesto con gli stessi parametri) alla pratica variabile (esecuzione del gesto con parametri diversificati; figura 2). L’interazione fra alternanza di programmi motori (interferenza contestuale) e variabilità nei parametri (variabilità) dà luogo a quattro possibili modalità di organizzazione, rappresentate in figura 4.






Nella seduta di allenamento si può scegliere di proporre alcune abilità in maniera bloccata e costante (quadrante in basso a sinistra nella figura 4), richiedendo cioè molte ripetizioni dello stesso gesto in maniera costante, prima di passare al gesto successivo ancora ripetuto in modo costante. Quando invece le abilità sono ripetute secondo un’organizzazione per blocchi e variabile (quadrante in basso a destra), lo stesso gesto viene ripetuto molte volte con variazioni nei parametri prima di passare al successivo. La pratica random/seriale e costante (quadrante in alto a sinistra), invece, prevede un’alternanza casuale o prestabilita delle abilità senza variarne i parametri. Infine, nella pratica random/seriale e variabile (quadrante in alto a destra) si alternano le abilità e si modificano anche i parametri esecutivi. Nella ginnastica artistica, ad esempio, seguendo la prima modalità di organizzazione (per blocchi e costante), l’allievo si eserciterà su tre volteggi (laterale, divaricato e frammezzo) eseguendo per ciascun volteggio 12 ripetizioni consecutive (figura 5a). Nella seconda modalità (per blocchi e variabile), l’allievo si eserciterà sui tre volteggi per blocchi, con 12 ripetizioni per ciascun volteggio, variandone però i parametri (velocità esecutiva, spinta degli arti, caricamento della pedana, ecc.) (figura 5b). Con la terza alternativa (seriale e costante), l’allievo eseguirà 3 ripetizioni per ciascun volteggio, ripetendo poi per altre tre volte l’intera serie di tre volteggi senza variarne i parametri (figura 5c). La quarta possibilità (seriale e variabile) si verifica quando le tre diverse abilità si alternano ogni 3 ripetizioni e si modificano nei parametri esecutivi (figura 5d). È da notare che nelle quattro situazioni il numero complessivo di esercitazioni (36), rimane invariato, così come quello di ciascun volteggio (12 ripetizioni), mentre cambiano l’organizzazione delle attività ed i parametri esecutivi. 






Sia la pratica random che la pratica seriale determinano un alto grado di interferenza contestuale. Negli sport ad abilità aperte (giochi sportivi, scherma, ecc.), quando si eseguono esercizi tecnico-tattici “in situazione” si determina automaticamente pratica random. Nelle abilità chiuse, è più comoda per l’allenatore un’organizzazione di tipo seriale. La pratica per blocchi deriva dalla convinzione che l’allievo debba esercitarsi ripetutamente su un compito, correggerlo ed affinarlo prima di passare al successivo. Effettivamente, questa modalità determina un risultato migliore nella prestazione immediata, poiché l’atleta può impegnare tutte le sue risorse attentive e cognitive su quel compito, con l’allenatore che dà istruzioni e feedback specifici sull’abilità. Tuttavia, i risultati di un’ampia mole di studi di laboratorio e di campo, studi che hanno coinvolto persone di diverse età e con compiti diversi, hanno dimostrato con grande evidenza che la pratica per blocchi è superiore alla pratica random o seriale solo nella prestazione immediata, poiché i risultati sono solo momentanei; la pratica alternata (random o seriale), invece, produce effetti più vantaggiosi nell’apprendimento a lungo termine e nel transfer a situazioni simili (Wright, Sekiya, Rhee, 2014). In una prima fase di apprendimento, però, un’elevata alternanza di compiti e variabilità nei parametri potrebbe causare confusione nell’allievo, già impegnato a comprendere e gestire una nuova situazione; è consigliabile, pertanto, arrivare gradualmente ad un’organizzazione della pratica con alta interferenza contestuale ed elevata variabilità una volta acquisita una certa approssimazione del gesto voluto. Questo graduale passaggio dalla pratica per blocchi e costante (la modalità esecutiva meno impegnativa) verso la pratica random/seriale (la modalità più impegnativa) attraverso le altre due forme di organizzazione (mediamente impegnative) è rappresentato in figura 4 dalle frecce circolari. Tale percorso è stato descritto per l’apprendimento della tecnica calcistica da Williams e Hodges (2005) partendo da esercitazioni di singole abilità costanti e per blocchi per arrivare a situazioni random e variabili simili a quelle di gioco. Gli effetti dell’interferenza contestuale sull’apprendimento vengono principalmente spiegati attraverso due ipotesi. La prima è l’ipotesi della ricostruzione dei piani d’azione (o della dimenticanza). Secondo tale ipotesi, l’interferenza contestuale è vantaggiosa in quanto l’individuo è stimolato a ricostruire di frequente un piano di azione nel passaggio da un compito al susseguente. Di fronte ad un compito nuovo, l’allievo ricerca una soluzione adeguata, attivando processi di raccolta e analisi delle informazioni disponibili e di organizzazione della risposta motoria. La soluzione (il modo in cui era stata programmata l’azione o la particolare strategia usata) è presto dimenticata se l’allievo è distolto dal primo compito (ad es., un volteggio laterale nella ginnastica) per impegnarsi in un secondo (volteggio divaricato) e poi in un terzo (volteggio frammezzo). Quando poi il primo compito è ripresentato, l’allievo si trova a dover ricostruire parzialmente o totalmente il progetto d’azione “dimenticato” e quindi a risolvere nuovamente il problema. È questa la ragione per cui la prestazione immediata è solitamente povera. D’altra parte, la generazione ed il frequente recupero delle soluzioni, pur essendo operazioni cognitive dispendiose, tendono ad approfondire la conoscenza e la comprensione del problema, migliorando la ritenzione a lungo termine ed il transfer a situazioni simili. Nella pratica per blocchi, invece, la soluzione del compito avviene nella fase iniziale e poi l’azione può essere svolta in modo ripetitivo, senza che vi sia un forte impegno dei processi di ricostruzione in memoria. La seconda ipotesi è quella di una maggiore elaborazione, e spiega gli effetti benefici della pratica alternata o casuale come derivati dall’impiego di molteplici strategie: in memoria di lavoro viene effettuato un continuo confronto e contrasto fra più compiti, che determinano la scoperta di similitudini e differenze fra le attività. Tali elaborazioni cognitive dell’azione favoriscono la codifica in memoria di rappresentazioni chiare, distinte, durature e facilmente recuperabili. Nella pratica per blocchi, viceversa, la ripetizione costante spinge non tanto alla scoperta di somiglianze e diversità fra i compiti, quanto piuttosto ad una mera ripetizione. Entrambe queste ipotesi, nella spiegazione degli effetti di interferenza contestuale, evidenziano la funzione rilevante dei processi cognitivi nell’apprendimento di compiti motori e la loro influenza sulla prestazione. Viene infatti valorizzato il ruolo dei processi mentali: l’interferenza contestuale è efficace poiché sollecita operazioni cognitive di scoperta delle soluzioni, elaborazione del materiale mnestico, analisi delle somiglianze e delle differenze, recupero delle informazioni. Gli effetti dell’interferenza sono maggiori quando sono alternati compiti diversi, controllati cioè da differenti programmi motori, piuttosto che compiti nei quali sono alternate variazioni dei parametri esecutivi di uno stesso programma; l’alternanza di più programmi motori costituisce verosimilmente una situazione di difficoltà maggiore in confronto all’alternanza di variazioni di un singolo programma. In questa prospettiva, l’interferenza causata dall’alternanza nella pallavolo di palleggio, bagher e battuta (tre programmi motori) sarebbe maggiore rispetto all’alternanza di palleggio alto, palleggio basso e palleggio teso (tre variazioni nei parametri di un programma motorio). Come si è visto, si possono anche combinare entrambi i tipi di organizzazione, alternando in modo seriale o casuale sia i programmi sia i parametri, attraverso una pratica random/ seriale e variabile. Nella pallamano, ad esempio, si possono alternare esercitazioni su passaggio, palleggio e tiro in porta (programmi diversi) con diverse combinazioni di velocità e direzione degli spostamenti (parametri diversi). Come già sottolineato, data la complessità delle richieste, tali proposte non vanno introdotte all’inizio dell’apprendimento, bensì dopo una fase di acquisizione che assicuri un certo controllo dei gesti tecnici.
 Dal punto di vista applicativo, considerando gli effetti vantaggiosi dell’interferenza contestuale e della variabilità, è utile: 
  • organizzare le sedute di apprendimento facendo esercitare gli atleti su più compiti all’interno della stessa seduta, proponendo esercitazioni variate ed alternate tra loro, in forma seriale o random. La ripetizione continuata di un unico gesto può determinare un abbassamento dell’impegno cognitivo ed un’esecuzione di tipo meccanico, mentre la variazione degli stimoli determina un costante impegno attentivo ed elaborazioni mentali più articolate;

  • modificare il numero di ripetizioni nelle serie in funzione del livello di apprendimento. In una prima fase, infatti, vanno proposte più ripetizioni dello stesso gesto per consentire una certa elaborazione cognitiva per la correzione dell’errore ed il rinforzo dell’esecuzione corretta. Successivamente, la variabilità può essere più frequente; 

  • alternare i programmi e variare i parametri anche contemporaneamente. Ovviamente quest’ultima è la situazione più complessa, da utilizzare nelle fasi più avanzate di apprendimento e perfezionamento; 

  • utilizzare nell’apprendimento il lavoro a stazioni. È questa una metodica di organizzazione delle attività che consente facilmente di produrre interferenza contestuale, con compiti diversi in ogni stazione su cui esercitarsi per un certo tempo.

Pratica globale e pratica per parti
Con questi termini vengono definiti nella letteratura scientifica internazionale i due concetti diffusi nella bibliografia italiana come metodo globale e metodo analitico. A livello scientifico, dunque, viene preferita una forma linguistica molto più operativa, evitando il termine “metodo” a cui sono attribuiti significati diversi, a seconda degli ambiti di studio, e di cui esistono varietà di definizioni e di criteri di classificazione con riferimento a sistemi di valori anche complessi. Anche il termine “analitico” viene sostituito con “per parti” che rimanda ad una situazione più chiaramente operativa. Con la pratica globale il compito è presentato ed esercitato nella sua globalità, mentre con la pratica per parti il compito è acquisito suddiviso in segmenti in seguito ricomposti nell’azione complessiva. La decisione se adottare la pratica globale o quella per parti non è casuale, ma è determinata dalle caratteristiche del compito, ed in particolare da due aspetti: da una parte la complessità delle proposte (anche con riferimento alle capacità individuali), dall’altra le proprietà del compito, ovvero la sua organizzazione interna, con riferimento all’interdipendenza delle parti che compongono l’azione (figura 6). 








In generale, se il compito risulta semplice per l’allievo e per di più è difficilmente separabile in unità, in quanto le parti sono strettamente interconnesse, è preferibile adottare una pratica globale. Se invece il compito risulta difficile ed è agevolmente suddivisibile in componenti più semplici, allora è preferibile una pratica per parti che, dopo essere state esercitate ed acquisite separatamente, vanno riunite a comporre il gesto globale. Quando possibile, è meglio utilizzare la pratica globale, in quanto il gesto è più facilmente compreso nella sua interezza, l’allievo di conseguenza è maggiormente motivato, e la scansione temporale del movimento è preservata; nella pratica per parti, al contrario, il senso di esercitazioni analitiche può non essere immediatamente compreso dall’allievo e la distanza percepita dall’obiettivo finale tende a causare demotivazione. Inoltre, la combinazione di parti separate che compongono l’azione è spesso dispendiosa in termini di tempo ed energie e non garantisce risultati ottimali (l’azione globale, infatti, è diversa dalla semplice somma delle parti). La pratica per parti, tuttavia, favorisce l’analisi dei dettagli e la correzione dell’errore, in quanto l’attenzione è posta sui particolari del movimento. Un approccio misto, definito per parti progressivo, può essere impiegato per abilità complesse e organizzate, o che coinvolgono un numero di componenti separate e indipendenti. Tale modalità prevede l’acquisizione di parti dell’azione che progressivamente vengono aggiunte ad altre parti a formare il movimento globale. Nel salto in  lungo, ad esempio, si può lavorare prima su passo e stacco, poi sulla rincorsa e poi sulla combinazione di rincorsa e stacco; si introduce quindi il perfezionamento della fase aerea e, infine, si uniscono le prime due parti all’ultima per comporre il salto. In questo modo si sommano i vantaggi della pratica per parti e di quella globale: l’allievo si impadronisce più facilmente dell’azione in quanto guidato ad orientare l’attenzione su aspetti specifici del gesto e, contemporaneamente, a comprendere gli aspetti coordinativi della globalità dell’azione. L’approccio per parti progressivo è anche indicato per l’acquisizione di sequenze di movimenti, come avviene nelle combinazioni della ginnastica artistica e, in generale, nelle discipline tecnico-compositorie. Un approccio ulteriore, utile nell’insegnamento di azioni complesse ma che non necessitano di procedure analitiche, è la semplificazione, ovvero la riduzione della difficoltà del compito. La semplificazione può essere ottenuta attraverso: riduzione delle difficoltà strutturali, con modifiche degli spazi e degli attrezzi per renderli più controllabili; diminuzione delle richieste motorie e attentive per mezzo dell’assistenza; introduzione di accompagnamento ritmico all’azione; riduzione della velocità esecutiva; orientamento dell’attenzione su punti chiave dell’azione attraverso suggerimenti verbali sintetici. La progressione di insegnamento vedrà poi un graduale passaggio dal facile al difficile e dal semplice al complesso, mentre l’attenzione verrà parallelamente orientata sugli aspetti esecutivi salienti che vengono ad emergere.

Le istruzioni

Una volta individuati gli obiettivi di insegnamento, scelti i contenuti e programmate le modalità con cui proporre le esercitazioni, l’allenatore deve poi riflettere su alcuni aspetti didattici che riguardano direttamente i suoi comportamenti. Uno di questi aspetti riguarda le istruzioni per favorire apprendimento e perfezionamento tecnico. Mentre per quanto concerne la variabilità della pratica le due principali teorie attuali su controllo e apprendimento motorio descritte precedentemente (la teoria dello schema e la teoria dei sistemi dinamici) ne valorizzano entrambe l’importanza, diverso appare invece il modo in cui vengono considerate le istruzioni, in particolare le istruzioni verbali.

Istruzioni verbali

 Secondo l’approccio cognitivista, che valorizza il ruolo del sistema nervoso centrale, le istruzioni sono fondamentali. Spiegazioni prima e durante l’esecuzione sono fornite all’allievo per comunicare obiettivi da conseguire, facilitare la comprensione del compito, sviluppare la rappresentazione mentale del gesto e del piano d’azione, rafforzare l’esecuzione corretta e correggere l’errore, ovviamente considerando età e livello di abilità. In questo modo, la rappresentazione mentale dell’azione viene gradualmente perfezionata e diviene punto di riferimento e di confronto con le sensazioni derivanti dall’esecuzione, per regolare e modificare l’azione. La comunicazione verbale, relativamente semplice ed immediata, è utile per dare una prima idea generale delle azioni, ma presenta alcuni limiti: è difficile, infatti, descrivere sensazioni propriocettive connesse all’azione, così come per l’allievo vi possono essere ambiguità nel decodificare le istruzioni. Le informazioni verbali, inoltre, sono seriali: le tappe di un’azione complessa, infatti, debbono essere descritte separatamente (ad es., prima l’azione dei piedi, poi quella del busto e quindi quella delle braccia, anche se i tre gesti sono simultanei e fanno parte di una stessa abilità). Tempi di spiegazione lunghi, infine, determinano facilmente in chi ascolta sovraccarico dell’attenzione, disinteresse e demotivazione. Per risultare efficaci, quindi, le istruzioni verbali debbono essere chiare, comprensibili e sintetiche, limitate agli aspetti principali dell’esecuzione (soprattutto per i principianti e gli allievi giovani), modificate al progredire dell’apprendimento, collegate subito all’esperienza pratica. L’ approccio dinamico considera invece l’apprendimento non come conseguenza di un controllo centralizzato, ma come derivato direttamente dall’interazione fra richieste del compito, individuo e ambiente. Privilegia pertanto un approccio euristico, nel quale il ruolo di chi insegna non è quello di fornire istruzioni prescrittive rispetto ad un modello ideale, quanto quello di condurre l’allievo a trovare strategie e soluzioni per eseguire un compito in funzione dei vincoli ambientali e delle proprie capacità fisiche e psichiche (come, ad es., il livello personale di forza o rapidità, ma anche la paura in alcune situazioni difficili). Vengono in questo caso utilizzate strategie come la scoperta guidata o la libera esplorazione, nelle quali, piuttosto che fornire istruzioni dettagliate, si creano situazioni problema e si danno informazioni molto generali sulle possibilità di azione, come stimolo all’esplorazione e alla scoperta di soluzioni efficaci. L’allenatore incoraggia e stimola la ricerca, anche con domande che facilitino comprensione e riconoscimento degli stimoli percettivi importanti a cui prestare attenzione. Questo è un approccio che richiede tempo e pazienza, ma produce apprendimento più duraturo e con maggiori capacità di adattamento (Ives, 2014). Risulta particolarmente utile nell’acquisizione di aspetti tattici. Ovviamente, se l’atleta non risponde ad un approccio di questo tipo, non sa come procedere o c’è un problema di sicurezza, sono necessarie istruzioni dirette. Come già detto nel capitolo sull’apprendimento, dai due approcci teorici derivano indicazioni didattiche diverse che possono essere utilizzate in funzione della situazione, del contesto, degli allievi, delle abilità su cui si sta lavorando, del tempo a disposizione ed anche delle scelte didattiche personali dell’allenatore. 

Istruzioni visive

 Una modalità molto diffusa per fornire informazioni su di un gesto, soprattutto con i principianti, è la dimostrazione; assieme a schemi, disegni, fotografie o filmati, è utile per trasmettere in modo diretto e chiaro aspetti rilevanti dell’azione; può riguardare particolari tecnici o la globalità del gesto. Le informazioni che l’allievo riceve da una dimostrazione sono decodificate e trasformate in una rappresentazione mentale che agisce da modello interno nella produzione della risposta e da standard per aggiustamenti correttivi. In generale, è più efficace l’osservazione di un modello esperto, non solo perché l’esecuzione è più probabile che sia corretta, ma anche perché chi osserva pone maggiore attenzione e attribuisce un significato a ciò che sta apprendendo. Per i principianti, soprattutto se bambini, un modello esperto può però essere troppo complesso, o può utilizzare movimenti che i principianti non sono ancora in grado di eseguire. In questo caso, anche l’osservazione del comportamento di coetanei inesperti impegnati nell’apprendimento può essere opportuno: si possono così osservare strategie di apprendimento efficaci e non efficaci, ed attivare processi di confronto e risoluzione di problemi che sono molto più significativi di una semplice osservazione. È dunque utile proporre strategie di insegnamento fra compagni, che richiedono osservazione e valutazione reciproca dei comportamenti tecnici e tattici, analisi delle difficoltà e dei progressi. Nella presentazione di un modello è comunque importante che siano evidenziati gli elementi rilevanti da osservare (ad es., la sequenza dei gesti o la scansione ritmica dell’azione); indicazioni verbali combinate alle informazioni visive aiutano a dirigere l’attenzione su elementi salienti del compito. L’osservazione dell’errore, inoltre, può rappresentare un espediente per la correzione se seguita dalla visione del movimento esatto o da spiegazioni che facilitino nel soggetto la formazione di una rappresentazione mentale precisa dell’azione. Le informazioni visive, similmente a quelle verbali, debbono essere sintetiche, chiare, precise, limitate agli aspetti essenziali e seguite dall’esperienza diretta. Un rinnovato interesse per lo studio dell’apprendimento osservativo è derivato da una scoperta relativamente recente delle neuroscienze, un particolare gruppo di neuroni visuomotori definito come sistema dei neuroni specchio. Tale sistema si attiva in una persona mentre osserva un’altra muoversi, e sembra avere quattro funzioni: comprendere l’azione (ciò che si sta vedendo), comprendere l’intenzione (perché il movimento viene effettuato), consentire l’imitazione e, infine, comprendere lo stato emozionale della persona che si sta osservando. Attualmente si ritiene che i neuroni specchio siano responsabili della pianificazione e dell’inizio di movimenti volontari, anche se non dell’effettiva esecuzione. La scoperta del sistema dei neuroni specchio è ancora relativamente recente e molto resta ancora da conoscere; comunque, sembra ormai chiaro che tale sistema svolge un ruolo essenziale nell’apprendimento volontario di abilità motorie. Il fatto rilevante è che, una volta che una persona ha acquisito un’esperienza anche minima in un’abilità, i relativi neuroni specchio vengono attivati e rinforzati (e questo determina apprendimento) sia che la persona esegua il movimento, sia che ne osservi un’altra eseguire (Edwards, 2011; Ives, 2014).

Informazioni cinestesiche

Nelle informazioni verbali e visive sono contenute dimensioni cognitive del movimento, ma non aspetti relativi a tensione muscolare, graduazione delle contrazioni ed aggiustamenti posturali automatizzati. Queste sensazioni presenti nell’azione possono essere trasmesse ed ampliate attraverso l’esecuzione con assistenza diretta o indiretta, in modo da “far sentire” il movimento corretto e ridurre l’errore. Questo tipo di intervento è indispensabile in esercitazioni che contengono elementi acrobatici, soprattutto per motivi di sicurezza. Tale guida può essere utile nella prima fase dell’apprendimento, quando l’allievo deve sviluppare un’idea di ciò che deve compiere; se mantenuta per troppo tempo, però, la guida tende a suscitare dipendenza dall’aiuto esterno, a scapito dei processi personali di elaborazione delle informazioni e di risoluzione del compito, nonché a provocare distorsioni nelle caratteristiche fondamentali dell’azione. Per tali ragioni si consiglia di utilizzare l’assistenza solo quando necessario e per breve tempo, favorendo piuttosto lo sviluppo di una guida autonoma fondata sulle risorse personali.
 In sintesi, indicazioni utili per la presentazione di un compito sono: 
  • fornire informazioni sintetiche, chiare, precise, limitate agli aspetti essenziali; • definire verbalmente punti chiave dell’azione che l’allievo possa utilizzare per regolare l’azione; 

  • presentare immagini attraverso dimostrazioni, grafici, fotografie, disegni, filmati; 

  • utilizzare dimostrazioni corrette, ma anche di allievi in fase di apprendimento;

  • fornire prospettive adeguate di osservazione; 

  • abbinare istruzioni verbali alle informazioni visive per dirigere l’attenzione su aspetti rilevanti;

  • collegare immediatamente le informazioni fornite all’esperienza pratica; 

  • porre domande e richiedere spiegazioni o riassunti dei punti principali per essere certi della comprensione; 

  • se si utilizza un approccio euristico (libera esplorazione o scoperta guidata), creare situazioni problema con difficoltà adeguate al livello degli allievi, e stimolare la ricerca degli elementi significativi e la scoperta delle soluzioni possibili. Incoraggiare e sollecitare gli allievi, ed eventualmente guidare con domande il riconoscimento degli elementi importanti su cui porre l’attenzione.

Il feedback e la correzione dell’errore

Il termine feedback indica tutte le informazioni che una persona riceve durante e dopo l’esecuzione di un’azione (figura 7). 






Alcune informazioni provengono dalla persona stessa, feedback sensoriale, altre invece riguardano le informazioni che l’allenatore fornisce al soggetto dopo l’esecuzione del compito, per permettere di correggere eventuali errori o ripetere nuovamente l’azione corretta; questo viene definito feedback aggiuntivo, poiché integra il feedback sensoriale normalmente è disponibile quando viene eseguito un movimento (Ives, 2014). Il feedback importante nell’insegnamento delle tecniche sportive, poiché svolge tre funzioni: 
fornisce informazioni sul risultato di un’azione necessarie per la correzione degli errori;
 • ha un effetto motivazionale poiché aiuta a mantenere l’attenzione sul compito e stimola l’impegno per raggiungere l’obiettivo;
 • rinforza i comportamenti corretti e riduce quelli scorretti. La capacità di fornire feedback appropriato è legata ovviamente alle competenze tecniche dell’allenatore: egli deve conoscere bene l’abilità che sta insegnando, avere chiari gli obiettivi rispetto al compito, possedere buone capacità di osservazione e di analisi dell’esecuzione. In alcuni sport (tuffi, pattinaggio artistico, ginnastica, nuoto sincronizzato, ecc.), il criterio di valutazione di gara è il movimento stesso, poiché un punteggio elevato viene assegnato solo quando le azioni tecniche sono eseguite correttamente; in questo caso, il feedback aggiuntivo deve aiutare l’atleta a ricercare un’esecuzione il più possibile accurata. In altre discipline, invece, come nei giochi sportivi, ciò che ha valore è soprattutto l’efficacia del gesto, anche se l’esecuzione può non corrispondere esattamente ai modelli teorici ottimali; in ogni caso, però, è più probabile ottenere un risultato efficace se viene usata una tecnica corretta. Buone competenze tecniche devono dunque essere acquisite dagli allenatori di tutte le discipline, ma fondamentali sono anche le conoscenze sulle diverse caratteristiche del feedback(figura 8).






Il feedback aggiuntivo può essere fornito sotto forma di conoscenza del risultato (Knowledge of results: KR) o di conoscenza della prestazione(Knowledge of performance: KP). La KP fornisce informazioni inerenti il risultato di un’azione rispetto all’obiettivo prefissato (ad es., un tempo di corsa o, nella pallavolo, un’osservazione del tipo “La battuta era fuori di 30 cm”); in alcune situazioni può essere ridondante, perché contiene informazioni che la persona ricava già dal proprio feedback sensoriale (ad es., “Hai fatto canestro”), ed in questo caso ha poco valore. Attraverso la KP, invece, vengono fornite informazioni inerenti le qualità esecutive del gesto, ossia il modo in cui è stata effettuata l’azione (ad es., “Nella verticale non avevi le gambe unite”). La forma più diffusa di feedback naturalmente quella verbale, relativamente semplice ed immediata; nell’analisi della prestazione tecnica si possono utilizzare anche delle riprese video per fornire al soggetto feedback visivo sulla sua prestazione. L’allenatore può esprimere un giudizio su quanto l’allievo ha eseguito (feedback valutativo) o fornire indicazioni per la correzione di un errore (feedback correttivo). Quest’ultimo può essere espresso in termini qualitativi o quantitativi: informazioni qualitative riguardano il significato dell’errore, senza un riferimento preciso alla sua grandezza (ad es., “L’esecuzione era troppo veloce”, “Abbassa di più il gomito”); informazioni quantitative danno indicazioni precise per la correzione (ad es., “Hai impiegato 6 secondi e 2 decimi”; “Abbassa il gomito di 2 cm”). Le informazioni quantitative, oltre ad essere più precise, creano sicuramente minori possibilità di fraintendimenti; vanno considerate, però, le capacità di un atleta di rielaborare in termini cognitivi feedback molto precisi, che, in alcuni casi, possono creare difficoltà nella comprensione e nell’adeguamento della risposta, e determinare quindi uno scadimento dell’esecuzione. Nella correzione di errori si distingue poi tra feedback descrittivo e feedback prescrittivo. Il primo fornisce informazioni sul gesto appena realizzato (“non hai esteso completamente le braccia”), il secondo su come eseguire nelle prove successive (“estendi completamente le braccia”). Il feedback prescrittivo può essere più utile per i principianti, perché li guida nella correzione dell’errore che probabilmente non saprebbero individuare da soli; una volta che essi hanno acquisito maggiori conoscenze sul gesto, il feedback descrittivo risulta più adeguato. Per quanto riguarda la formulazione del feedback in negativo, centrando quindi l’attenzione sull’errore, oppure in positivo, ponendo attenzione agli aspetti e alle modalità dell’esecuzione corretta, la situazione è diversa a seconda che si decida di usare feedback descrittivo o prescrittivo. Nel primo caso, feedback sia negativi che positivi possono risultare validi: le informazioni sull’errore (ad es., negli ostacoli “non stai richiamando la seconda gamba”) sono utili per far comprendere il gesto che si sta insegnando, mentre quelle sull’esecuzione corretta (“buona l’azione della prima gamba”) hanno maggior significato dal punto di vista motivazionale. Invece, qualora si utilizzi un feedback prescrittivo è senz’altro preferibile fornire informazioni in positivo (cosa fare) piuttosto che in negativo (cosa non fare), per aiutare l’allievo ad elaborare un’immagine corretta del gesto, che possa servire come guida mentale per l’esecuzione. Un’ulteriore modalità di intervento dell’allenatore è quella di porre domande sul compito: in questo modo si stimola l’allievo ad orientare l’attenzione sulle proprie sensazioni, migliorando così la comprensione e la rappresentazione mentale del gesto e favorendo capacità autonome di controllo esecutivo. Le domande sono anche parte integrante di strategie come la scoperta guidata o la libera esplorazione, all’interno delle quali anche il feedback è finalizzato alla ricerca, da parte dell’allievo, di strategie e soluzioni rispetto al compito ed alla riflessione su quanto fatto. Quando si lavora con più atleti, il feedback può essere rivolto all’intero gruppo, ad una parte del gruppo o all’individuo. La maggior parte dei principianti, inizialmente, può beneficiare dei medesimi feedback; in questo caso le indicazioni possono essere indirizzate all’intero gruppo. Con il procedere dell’apprendimento, il feedback diventa sempre più individualizzato in relazione alle caratteristiche di ciascuno. Negli sport di squadra, può essere anche opportuno fornire feedback ad un sottogruppo (ad es., gli attaccanti) attraverso indicazioni mirate rispetto ad un ruolo specifico. Nelle prime fasi di apprendimento è preferibile fornire informazioni di carattere generale, piuttosto che relative a dettagli della prestazione, in quanto maggiormente significative e motivanti. Successivamente, invece, un feedback specifico è più efficace, poiché focalizza maggiormente l’attenzione sul compito. Mano a mano che gli allievi apprendono, dunque, il feedback dovrà diventare sempre più specifico. Un ulteriore aspetto da considerare riguarda la frequenza del feedback. Intuitivamente, un feedback molto frequente, anche dopo ogni esecuzione, potrebbe sembrare utile per facilitare l’apprendimento; la ricerca, però, ha decisamente dimostrato come questo non si verifichi nella realtà. Uno dei problemi principali che deriva da un feedback aggiuntivo troppo frequente è lo sviluppo della dipendenza nei confronti di fonti esterne (l’allenatore) per l’individuazione dell’errore. Più specificatamente, un feedback aggiuntivo eccessivamente frequente: 
a) diventa parte del compito che deve essere appreso e l’atleta sviluppa dipendenza; 
b) determina correzioni solo a breve termine; 
c) limita altri processi di elaborazione necessari per consentire l’incremento delle capacità personali di riconoscere e correggere gli errori (Edwards, 2011).  Tab.1







 L’obiettivo dell’allenatore, invece, dovrebbe essere quello di rendere l’atleta capace di riconoscere le sensazioni associate all’esecuzione corretta, e autonomo nell’uso del proprio feedback sensoriale. Se, dunque, in una prima fase d’apprendimento un feedback relativamente frequente può dimostrarsi utile, poiché l’azione dev’essere ancora compresa nelle sue linee essenziali, al progredire dell’apprendimento il feedback gradualmente ridotto, così da sollecitare capacità autonome di rilevamento dell’errore, d’analisi e di risoluzione. In tabella 1 vengono fornite alcune tecniche utili per la riduzione progressiva del feedback aggiuntivo. Alcune altre indicazioni didattiche sono di seguito presentate sinteticamente.
  • Nel fornire il feedback l’allenatore deve considerare l’età dei soggetti, il loro livello di capacità e abilità motorie, nonché le caratteristiche e la complessità del gesto da apprendere;

  •   è fondamentale, prima di tutto, analizzare bene l’esecuzione del compito per individuare la vera causa dell’errore. Questo può richiedere l’osservazione di alcune ripetizioni del gesto prima di intervenire con un feedback;

  • in presenza di più errori, ne va corretto uno alla volta individuando quello più importante e fornendo feedback solo su quello;

  • i principianti ricavano spesso maggior utilità da un feedback di tipo visivo, che li aiuta a costruire un’immagine più precisa del gesto; gli esperti, invece, sono in grado di collegare in modo accurato un feedback di tipo verbale alle corrispondenti sensazioni cinestesiche;

  • se si utilizzano riprese video per fornire feedback visivo sulla prestazione, è opportuno indicare all’allievo gli elementi su cui focalizzare l’attenzione, e fare riferimento solo a pochi aspetti fondamentali da considerare nell’osservazione;

  • a seconda delle caratteristiche del gesto da apprendere (abilità aperta o chiusa), va considerato se fornire feedback sul risultato dell’azione o sulle modalità esecutive (ad es., negli sport di situazione il gesto va continuamente adattato alle richieste situazionali, e l’esecuzione tecnica è subordinata all’efficacia). Possono risultare utili anche feedback relativi ad aspetti percettivi (su quale parte del corpo portare l’attenzione, o dove indirizzare lo sguardo rispetto agli avversari);

  • soprattutto con atleti esperti, si può richiedere la valutazione di particolari dell’azione e discutere le eventuali difficoltà incontrate. Se un’esecuzione si esprime in termini quantitativi, si può anche invitare l’atleta a stimare la propria prestazione prima di ricevere il feedback;

  • a fini motivazionali, è molto importante riconoscere anche l’impegno oltre che i progressi reali.


Bibliografia

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